La felicità. Vedete, è esattamente questo il problema. Non ce l’ha mai spiegata nessuno. Eppure sappiamo cos’è non appena veniamo al mondo. Prima ancora di scoprire quale sia il nome che ci hanno appioppato, già sorridiamo. Poi, però, con gli anni si incasina tutto e quello che sembrava così semplice diventa maledettamente complicato. Soldi, amore, viaggi, lavoro, promozioni, botte di culo. Avere una ragione per esser felici, da grandi, non è scontato. Ha ragione Guccini: sarebbe stato un anagramma perfetto di facilità, se solo avessimo potuto barare su una lettera. E invece no. Nella realtà è un’odissea. E tornare al punto di partenza, non è facile per nessuno.
Faccio sempre attenzione quando qualcuno parla di felicità. Ad esempio, non riesco a togliermi dalla testa un brano del libro di Jon Krakauer, Nelle terre estreme. Il passo è quello in cui Christopher McCandless annota qualcosa su un libro, accanto ad un paragrafo che fa: “Solo la vita simile alla vita di chi ci circonda, la vita che si immerge nella vita senza lasciar segno, è vera vita, la felicità isolata non è felicità“. È una citazione di Boris Leonidovič Pasternak, scrittore e poeta russo. È tratta dal suo unico romanzo grazie a cui nel ’58 ottenne il Nobel per la letteratura: “Il dottor Živago“. La felicità isolata non è felicità. La stessa conclusione a cui arriverà Christopher nei primi anni 90, rannicchiato in un sacco a pelo all’interno di un autobus di linea abbandonato lungo lo Stampede Trail, in Alaska. Quando il suo corpo fu ritrovato da alcuni cacciatori, aveva con sé alcuni libri. Uno di questi era proprio Il dottor Živago. Accanto al brano di Pasternak, Chris scrisse: “La felicità è vera solo quando è condivisa“.
Quando nel 2011 mi misi in viaggio verso le aree interne italiane, volevo capire proprio questo. Perché, in una città immensa come Roma, io, uno tra qualche milione di persone, in quella “vita che si immerge nella vita senza lasciar segno”, non mi sentivo felice? Così sono partito. Istintivamente verso la montagna, alla ricerca di posti simili a quello da cui sono andato via a 18 anni. Forse per riscattare un’andata resa obbligatoria dalle circostanze, ma anche per capire come combattere quella solitudine in cui ero inciampato tra le strade della città eterna.
Decisi di andare a stanare la bestia nel suo covo. In quella frontiera interna che avevo già idealizzato: terra di pensionati che affollano bar e vecchie sedi della democrazia cristiana con un mazzo di carte napoletane in mano; di giovani che fuggono a tutto gas appena patentati, quando il freno è un optional; di case in vendita che non hanno neanche un buon motivo per essere acquistate. Ero sicuro che lì, in qualche modo, avrei capito il senso di quelle parole di Pasternak. Dovevo smascherare la felicità isolata.
E così è stato. Ma non ho trovato la solitudine che mi aspettavo. I segni dell’abbandono, quelli sì. Come cicatrici sulla pelle. Rughe profonde su un corpo maturo. Ho raccolto le difficoltà e il desiderio di qualcosa di meglio nelle parole delle persone che ho incontrato. Quello che non pensavo di poter trovare, però, è stata la relazione con le persone. Spontanea. Autentica. L’ho sperimentata con tutti quelli con cui ho scambiato qualche parola lungo il viaggio. Ai timori degli anziani di un lungo inverno da affrontare tra le mura di casa, alle paure dei giovani di un futuro senza lavoro, si mescolavano le loro preoccupazioni per il mio viaggio, per il mio pernottamento, per il vitto. Non c’era mai solo il racconto di chi incontravo. In quelle conversazioni non programmate sugli autobus, nei bar o a bordo strada c’ero sempre anch’io e la mia storia. Nelle loro domande c’era lo stesso interesse che io nutrivo per loro. Sebbene viaggiassi senza accompagnatori, non mi sono mai sentito solo.
Ed è allora che ho capito Pasternak. “La vita simile alla vita di chi ci circonda”. Io, con la mia paura di restare solo, e loro, alla prese con una diagnosi conclamata di sindrome dell’abbandono. Ed infine “la vita che si immerge nella vita senza lasciar segno”: ovvero io e il mio silenzioso viaggio dentro un mondo che resta sempre zitto, per educazione, per vergogna o perché davvero non ha nulla da aggiungere. Era lì la vita vera. Lì, dove ho scoperto che è complicato sentirsi veramente soli, anche se in qualche modo è come vivere in culo al mondo.
Non so voi, ma per quanto mi riguarda c’è sempre di mezzo un libro. E come Christopher, anch’io ne ho portato uno con me. Di poche pagine, peraltro. Certo dovevo contenere il peso dello zaino, ma la motivazione reale di questa scelta è stata un’altra. Volevo tenermi alla larga dalle guide turistiche e dai percorsi collaudati: l’intenzione era di perdermi nelle aree interne. Per questo ho scelto di lasciarmi alle spalle quella bibliografia che altri avrebbero considerato necessaria, nel 2011.
Volevo un libro che fosse un esercizio d’atletica per la mia immaginazione. Un libro che non suggerisse dove aguzzare lo sguardo o quando tendere l’orecchio, ma che mi facesse comprendere la prognosi delle mie domande, ancor prima di procedere all’autopsia delle risposte. Com’è possibile sentirsi soli in una città di qualche milione di abitanti? Cosa manca ai passeggeri della metropolitana all’orario di punta tanto da non farli incontrare neanche in un vagone affollato? E a me, appeso come un vecchio cappotto ad un corrimano, cosa manca?
“A Cloe, grande città, le persone che passano per le vie non si conoscono. Al vedersi immaginano mille cose uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi. Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano”.
Le città invisibili. Italo Calvino
Ho portato con me Calvino: “Le città invisibili“. L’ultimo passaggio è tratto esattamente da questo libro voluto dall’autore per “scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città”. Solo che io pensavo di ottenere l’esatto contrario, cioè scoprire le ragioni che portano a vivere lontano dalle grandi città. Ero convinto che capire i primi mi avrebbe consentito di comprendere gli altri. Leggendo Calvino ho capito che dovevo “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. E così ho fatto. Mi sono ripreso il tempo per viaggiare, e ho dato spazio alle aree interne e a quelle interiori. Profonde. Mie. Così ho scoperto che “anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa di esistere”.
Copertina e alcune foto contenute nel mio libro “L’Italia che resta“
Il mio viaggio l’ho raccontato in un libro: “L’Italia che resta. La frontiera interna e il coraggio di essere felici” (Ediciclo Editore, 2021). A dieci anni da quella esperienza, di aree interne se ne parla di più. Ne parlano i giornali, i politici, se ne occupa una Strategia nazionale – anche se sperimentale -, sono nate reti e associazioni. Dopo la pandemia, poi, sono in tanti a guardare questa fetta di paese con occhi diversi. Come se fosse la soluzione al distanziamento sociale o anche solo il male minore rispetto ai profondi squilibri sociali delle città.
Eppure di questo tema, in qualche modo, se ne parla da sempre. Come in un libro di qualche tempo fa che inizia così: “C’è una ragione perché sono tornato in questo paese“. Vi dice niente? È la più famosa opera di Cesare Pavese. La luna e i falò. Un classico stracitato. Ma è importante ancora oggi, perché non è solo un racconto della resistenza: in questi anni è soprattutto la storia di un ritorno e l’ipotesi di una restanza. “Un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Eppure anch’io, come il protagonista del romanzo di Pavese, ci ho messo del tempo per capirlo. “Possibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto – scrive Pavese -, non sappia ancora che cos’è il mio paese?“
Non mi ero mai posto questa domanda prima d’ora. Cos’è il mio paese. Cosa c’è dentro. Nei coaguli dei suoi abitanti. Nelle sue strade varicose. Nei suoi misteri mitocondriali. Nei suoi equilibri otolitici. Nei movimenti peristaltici delle metropolitane. Nei suoi paesaggi peritoneali. Una cosa è certa: il mio paese è un corpo vivo. Non solo polpa e osso, come diceva Manlio Rossi-Doria. È qualcosa di più particolare. Molecolare, la cui anatomia è tutta da aggiornare.
“Un giorno mi sono trovata a fare una cosa bizzarra”, scrive Grazia Coppola, presidente dell’associazione Comunità provvisorie che ha dato vita alla Casa della Paesologia nel primo numero di Entroterra. “Ero in linea con un operatore telefonico e all’improvviso ho cominciato a fare lo spelling utilizzando i nomi dei paesi. Dettavo il mio codice fiscale CPPGRZ… C come Conza, P come Pietracupa e Perdifumo, G gome Greci, R come Roghudi, Z come Zagarise. Dall’altra parte s’era fatto silenzio, la colpa era mia, non potevo pretendere corrispondenza. È chiaro che non è la stessa cosa che dire D come Domodossola. In effetti i paesi ci offrono infinite possibilità, fatta salva credo l’acca su cui ci tocca dire ‘come hotel’ per sempre”.
Ma Grazia Coppola si sbaglia. Un paese che inizia con l’acca, in Italia c’è. Un paese c’è sempre. Anche se di fronte al grande pubblico fa scena muta. Come la sua iniziale. Si chiama Hône. Con l’acca, appunto. Con i suoi circa mille abitanti presidia il limite orientale della piana di Arnad, in Valle d’Aosta. Ai piedi di Hône scorre la Dora Baltea, per portata il quinto affluente del Po. Da Hône passa la via Francigena. A Hône c’era una fabbrica di chiodi che servirono a confezionare gli stivali dei soldati italiani della Grande guerra. A Hône, infine, si parla il patois valdostano, per cui non puoi sbagliarti. Otel, albergo, si scrive senza acca.