Chi l’ha detto la maggior parte dei giovani va o vuole andar via dalle aree interne e montane del nostro paese? A rovesciare una narrazione data fin troppo per scontata è l’associazione Riabitare l’Italia che in questi giorni ha pubblicato i primi risultati di una poderosa ricerca sui giovani delle aree interne italiane dal titolo “Giovani Dentro”. La ricerca è una delle prime iniziative dell’associazione costituitasi nell’estate del 2020, ma nata nel solco di un laboratorio attivo già da tre anni e che coinvolge esperti, accademici, operatori, attori sociali, cittadini, organizzazioni non governative, imprese, cooperative e aziende interessate al tema della riattivazione dei territori rurali, interni, marginalizzati e montani del paese. “L’obiettivo è quello di focalizzare l’attenzione sulle risorse che ci sono nei territori di cui stiamo parlando – spiega a Redattore Sociale Andrea Membretti, professore di Sociologia del territorio all’Università di Pavia e coordinatore dell’indagine Giovani Dentro -. Vogliamo invertire lo sguardo e guardare l’Italia dai margini invece che da quello che si presume essere il centro”.
I primi dati raccolti dall’associazione parlano chiaro: tra circa mille soggetti intervistati a dicembre 2020 con una rilevazione SWG, oltre la metà dei giovani tra i 18 e 39 anni (il 67%) è orientato a rimanere nel comune delle aree interne in cui vive. “In particolare, il 50% degli intervistati è orientato a restare pianificando lì la propria vita e il proprio lavoro (ciò è vero soprattutto per le donne, 52%) – spiega l’associazione – e circa il 15% è orientato a partire, anche se preferirebbe restare”. I dati relativi al campione sono anch’essi significativi e degni d’attenzione: tra i soggetti intervistati, il 52% è di genere femminile e il 48% maschile. Il 45% ha tra i 18-29 anni e il 55% tra i 30-39 anni. Sono poco più della metà (54%) coloro che hanno trascorso del tempo fuori dal proprio comune in cui vive per esperienze di lavoro (di cui il 44% in Italia mentre circa il 10% all’estero), che sono durate più di un anno per il 42% dei rispondenti. Il 41% ha frequentato o sta frequentando l’università. Il 67% dei soggetti intervistati sono lavoratori. Il 44% ha un lavoro a tempo indeterminato, e il 22% a tempo determinato.
Le ragioni di chi resta nelle aree interne o quelle che spingono i giovani a partire sono piuttosto definite. “Tra chi resta – spiega l’associazione -, i fattori a cui viene attribuito molto peso nella scelta sono: la migliore qualità della vita dal punto di vista ambientale e dello stile di vita (79%), la possibilità di avere contatti umani e sociali più gratificanti (67%), il minor costo della vita (60%) e perché il posto in cui si vive piace e offre opportunità per restare (55%)”. Per chi va via, invece, le motivazioni principali riguardano le “opportunità in termini di qualità del lavoro e della formazione (84%) e la possibilità di accedere a migliori condizioni di vita per l’offerta di servizi culturali, sociali, assistenziali (77%)”.
Lo studio è stato cofinanziato della Fondazione Peppino Vismara e Coopfond, in partnership con il Crea per la Rrn, il Gssi, Eurac Research, Cps e l’Osservatorio Giovani dell’Università di Salerno e non resterà solo sulla carta, ma fornirà informazioni utili per poter implementare delle azioni proprio nelle aree interne di alcune regioni. “L’idea è quella di costruire un percorso di ricerca-azione – spiega Membretti -: c’è una parte di analisi di dati quantitativi, ma poi andremo a fare un approfondimento qualitativo perché vogliamo capire chi sono i giovani di 18-39 anni che vivono in questi territori, che risorse rappresentano non solo per quei territori, ma per il paese, al fine di presentare un’immagine diversa rispetto alle retoriche della marginalità, delle aree interne da cui scappano tutti e che i giovani sono quelli che se ne vanno per primi. Già da altre ricerche e da tante storie che abbiamo raccolto in questi anni sappiamo che i giovani sono rimasti in questi territori per scelta sono tanti ed è anche un fenomeno in crescita”. L’obiettivo finale, quindi, è passare dalla teoria alla pratica. “In alcuni territori vogliamo contribuire ad avviare dei percorsi di cambiamento – aggiunge Membretti — I supporter di questa ricerca sono molto attenti alle ricadute territoriali: in alcune regioni andremo ad avviare, grazie ai dati della ricerca, dei percorsi che riguarderanno startup di cooperativa, il progetto nazionale della scuola di pastorizia su cui stiamo lavorando con altri attori e lo sportello vivere e lavorare in montagna. Questi dati ci serviranno per attivare delle iniziative di coinvolgimento dei giovani con cui abbiamo fatto la ricerca: formazione, piccola imprenditorialità cooperativa e startup. Queste sono le cose su cui stiamo lavorando”.
Dai primi dati, inoltre, emerge l’importanza “prospettica” delle attività agro-silvo-pastorali, spiega l’associazione. “Solo il 9% degli intervistati ritiene che la motivazione principale per rimanere in agricoltura sia la mancanza di valide alternative di lavoro e solo il 6% non vede motivazioni valide per lavorare in ambito agricolo – si legge in una nota -. Inoltre la maggior parte degli intervistati ha un rapporto positivo con la natura riconoscendone il valore di risorsa (13%) o vivendola come ambiente incontaminato (59%). Per il 21% il desiderio di contatto con gli animali e la natura è tra le motivazioni fondamentali che portano un giovane a lavorare in agricoltura. Altre motivazioni sono: la continuazione di attività familiari (17%), l’interesse personale (15%) e la preferenza per uno stile di vita semplice (12%)”.
Ma la riscoperta della montagna, delle sue risorse e delle opportunità che offrono le aree interne non è dovuta soltanto all’effetto lockdown imposto dalla pandemia da Covid-19. “Le opportunità si cominciavano a vedere già da alcuni anni – sottolinea Membretti -. Sono circa 20 anni che ci sono dei giovani che si rendono conto che le aree interne, soprattutto quelle montane, offrono delle specificità: risorse ambientali, anche in termini di spazi e terreni incolti che si possono trasformare; una minore densità abitativa e la rarefazione sociale che se per certi aspetti rappresenta un problema, per altri è anche un’occasione di innovazione”. C’è poi un’attenzione crescente da parte della città per quel che le aree appenniniche e alpine rappresentano simbolicamente, aggiunge Membretti. “Sono percepite come contraltare positivo della città non solo in termini di ricreazione da weekend, ma anche di luoghi che diventano un polmone positivo di compensazione, che possono offrire dei prodotti a cui si dà un grande valore anche simbolico, perché naturali e legati alla tradizione. Molte risorse presenti in questi territori sono state colte innanzitutto da chi non li abitava da prima e che veniva da fuori”.
La pandemia ha accelerato questi processi, almeno dal punto di vista della percezione delle opportunità. “In concomitanza con la pandemia, ma comunque negli ultimi tempi, i giovani residenti in questi territori si stanno rendendo conto di quante risorse ci sono e che sia più opportuno sfruttare quelle risorse invece che andarsene – spiega Membretti -. La pandemia ha rappresentato un obbligo per molte persone a rimanere nel proprio territorio ed ha permesso loro di vedere risorse e opportunità”. La ricerca-azione, tuttavia è ancora alle prime battute e potrebbe portare altre novità interessanti nei prossimi mesi. “Siamo già a lavoro su una seconda fase con 2mila questionari che abbiamo quasi finito di far compilare online a soggetti che abbiamo raggiunto attraverso contatti diretti, innanzitutto nelle aree interne, coprendo anche quelle più marginalizzate – continua Membretti -. Il secondo campione verrà completato nell’arco di due settimane circa e poi c’è la parte di interviste telefoniche e focus group che faremo da qui a giugno. Si tratta di un processo lungo di cui i dati presentati in questi giorni non sono che un’anticipazione”. (G.Augello)
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