Avete mai avuto il sospetto che con quel avete nel vostro portafogli, mentre ci sbirciate dentro in coda al supermercato, non riuscirete mai a cambiare il corso della storia? Be’, se l’avete pensato, anche solo una volta, sappiate che vi state sbagliando. A volte, il valore reale di qualcosa è molto distante dal suo valore nominale. Avrebbe dovuto farci caso anche Franklin Delano Roosevelt, storico presidente degli Stati uniti d’America.
Più o meno tutti lo ricorderanno seduto su una panchina in mezzo a Churchill e Stalin in una foto scattata nel febbraio del 1945, durante la conferenza di Jalta. No, non erano stanchi. Roosevelt, semplicemente, non si reggeva in piedi. Ha passato gli anni da presidente sorretto da pesanti tutori d’acciaio nascosti dai suoi abiti abbondanti, ma quando non si mostrava in pubblico se ne stava su una sedia a ruote. Tuttavia, ancora oggi, sono poche le foto che lo ritraggono in carrozzina. Una volta disse a Orson Welles: “Io e te siamo i più grandi attori d’America”. E aveva ragione. Come Orson Welles, Roosevelt parlava agli americani utilizzando la radio. E a quel tempo, lo sappiamo bene, tutti credevano a quello che trasmetteva.
A quasi duemila chilometri dalla Casa Bianca, mentre il trentanovenne Fulgencio Batista y Zaldívar veniva eletto presidente di Cuba, un ragazzino di 14 anni – anche se dichiarerà di averne solo dodici – ammaliato dalla possente voce del presidente Roosevelt che viaggiava su invisibili onde radio, prese carta e penna e decise di scrivergli. La carta intestata svelava la provenienza di quella lettera: arrivava dal Colegio de Dolores di Santiago de Cuba. Nella missiva, il mittente si rivolgeva al presidente degli Stati uniti d’America chiamandolo “amico mio”. Poi, dopo un breve giro di parole, andava dritto al punto: “Mandami dieci dollari americani, se ti va”.
Inaspettatamente, da Washington arrivò una risposta. Ne parlò perfino il bollettino scolastico, ma dei 10 dollari americani neanche l’ombra, nonostante la generosa offerta di mostrare, in cambio di quell’esigua somma di denaro, le più grandi miniere di ferro del paese. Il ragazzino ci rimase così male che ai suoi compagni di classe disse di non considerare più “amico” il presidente degli Stati uniti. Il quattordicenne si chiamava Fidel Alejandro Castro Ruz. Per i futuri nemici, Fidel.
Anche se facciamo fatica a ricordarlo, i verdoni, agli occhi dei più piccoli, valgono molto di più di quel che dice il numero stampato sulla banconota o lo stesso mercato. E la storia che mi raccontò un amico me lo confermò. Assillato dalle lagne del figlio per ottenere un nuovo giocattolo, il mio amico cercò di spiegargli l’origine dei soldi. “Ora non ne ho, ma non cadono dal cielo. Si guadagnano lavorando e devi farne un buon uso”. A questa argomentazione, il figlio replicò: “Se non ne hai ora, perché non li vai a prendere al bancomat? Lì ci sono sempre”. E così, fu necessario spiegare anche il funzionamento di quel computer sputa soldi. “Vedi, quelli sono sempre soldi tuoi. Li hai guadagnati col sudore della fronte e li hai consegnati alla banca”. Non c’era altro da aggiungere. Solo che una questione sfuggiva ancora alla semplice e lineare mente di un bambino. “Aspetta papà – disse ancora il figlio -, ma tu ti fidi davvero della banca?”
A volte non puoi farne a meno. Ti devi fidare. Me lo disse un giorno un anziano dopo essersi rialzato da una brutta caduta sulle scale di una chiesa. Avrò avuto si e no una decina d’anni. Dopo essergli andato incontro per aiutarlo a rialzarsi, il vecchietto mi mostrò la mano che aveva urtato con violenza contro la scalinata. Non c’era sangue, ma un dito aveva subito una vistosa distorsione. Era tutto storto. Io mi spaventai, ma lui, sorridendo, mi rassicurò: “Non è niente. Si può aggiustare”. E mi chiese di dargli una mano. “Stringi forte e tira”, continuò. Ma io mi feci indietro. Lui allora mi disse che quel dito gli serviva e per questo aggiunse: “Fidati. Lo rimetteremo a posto”. A cosa gli servisse l’avrei capito più tardi, dalla razione di quanti ascoltavano divertiti la mia storia e a cui mostravo fiero quale fosse il dito in questione.
Nell’ammutinamento generale delle altre dita della mia mano, quel medio issato sulle nocche non avrebbe avuto alcun valore se non fosse stato indotto da una convenzione sociale. E a Guardiagrele, piccolo borgo abruzzese, questo concetto lo conoscono bene: per quanto possa sembrare innato, il valore delle cose non è poi così scontato. Per dimostrarlo, all’inizio dell’estate del 2000, Giacinto Auriti, docente di Teoria generale del Diritto Privato all’Università di Teramo ma guardiagrelese doc, diede vita ad un esperimento singolare: stampare moneta per dimostrare che anche il valore del denaro può essere indotto da una convenzione sociale.
Così, in un paesino di 9mila anime, iniziò a circolare il Simec, acronimo di simbolo econometrico di valore indotto. L’esperimento, tuttavia, durò poco. A metà agosto di quello stesso anno il Tribunale di Chieti sequestrò la nuova moneta e anche se il sequestro fu annullato dal Riesame, l’esperimento terminò in quello stesso istante. Le banconote emesse avevano sette tagli e da qualche parte c’era una scritta in latino che diceva: “Non bene pro toto libertas venditur auro”. La libertà non è in vendita – sembra tuonare la citazione – neanche per tutto l’oro del mondo. Con soli 10 dollari, però, Roosevelt avrebbe potuto cambiare il corso della storia. Solo che mentre guardava nel portafogli, una questione sfuggiva ancora alla sua complicata e algoritmica mente da adulto. “Aspetta Franklin – avrà pensato -, ma tu ti fidi davvero di un bambino?”