Dicono che siano i migliori amici dell’uomo, ma scommetto che tutti, prima o poi, hanno avuto un cane poco amichevole alle calcagna. Quello di Sean Howard Kinney si chiamava Tripod. Lo inseguiva tutte le volte che andava a lavoro, da ragazzo. A quei tempi, Sean picchiava già duro sulla grancassa, sebbene suonasse soltanto nella band del padre. Si chiamavano The Cross Cats. Non credo che un adolescente di Renton, cresciuto a due passi da Seattle, potesse vantarsene con le ragazze. Negli anni 80. Facevano di tutto. Anche i matrimoni, ovviamente. La musica, tuttavia, lo avrebbe portato lontano. E Tripod in qualche modo l’avrebbe continuato a seguire. Cos’aveva di particolare questo cane? Niente, a parte il fatto di avere soltanto tre zampe. Per questo, nel 1995 finì sulla copertina del terzo album della sua band. Il disco portava semplicemente il nome del gruppo: Alice in Chains.
L’album non ebbe il successo sperato, nonostante i tre dischi di platino conquistati negli Stati Uniti. I fan lo avevano ribattezzato Tripod, non solo per via della copertina, ma anche perché sul retro dell’album c’era la foto di Francesco Lentini, detto Frank. Siciliano, nato a Rosolini nel lontano 1889, all’età di otto anni partì da Liverpool alla conquista del sogno americano. Ci volle poco per dimenticare un’infanzia di sofferenze. In poco tempo, infatti, conquistò l’appellativo di The Three-Legged Wonder, che in siciliano diventava Frank Tregambe, detto ’U maravigghiusu. Nome con cui divenne una celebrità nel mondo circense e dello spettacolo. Frank era nato con tre gambe, quattro piedi e ben due organi genitali di cui, per via del suo spiccato senso dell’umorismo, vantava le gesta. E i suoi quattro figli avuti da Theresa Murray ne davano testimonianza. Si esibì fino alla morte, avvenuta nel 1966. Lo stesso anno in cui a Seattle nasceva Sean Howard Kinney, che diversi anni dopo divenne il batterista di uno dei più importanti gruppi grunge della scena musicale mondiale.
La prima volta che ho sentito la storia di Frank, mi è tornata in mente una vicenda vissuta tra i banchi di scuola. Alle medie. Tema d’italiano. La professoressa ci chiese di raccontare noi stessi. Senza troppi vincoli. Ma fu proprio per questo che successe il finimondo. Uno dei bulletti della classe prese un po’ troppo alla lettera le istruzioni iniziali e senza pensarci troppo, si dedicò in modo certosino all’inventario del proprio corpo. Scrisse delle sue due gambe, contò le dita dei suoi piedi, raccontò del palmo già calloso delle proprie mani, prese le misure della scatola cranica e sulle sue braccia avanzò anche il sospetto che fossero differenti. L’una più lunga dell’altra. Sul finale, dopo essersi attentamente ispezionato, concluse che nonostante tutto poteva affermare senza ombra di dubbio di essere “abbastanza normale”. Quando la professoressa riportò i compiti corretti in classe fu uno show. Dopo averlo rimproverato sonoramente, sventolando quel foglio di protocollo con un pessimo voto vergato in rosso sul retro, prese il testo e lo lesse davanti all’intera classe. Tutti risero a crepapelle, tranne lui, che dismessa l’armatura del bullo, pianse.
La normalità, in questi giorni di quarantena, è sulla bocca di tutti. Ognuno pensa di averne carpito i concetti chiave, compreso la portata e realizzato la sua inaspettata venuta meno. Come nelle immagini apparse sul web che mostrano tre cervi passeggiare tra le stradine di Villetta Barrea, un piccolo borgo abruzzese aggrappato agli Appennini. Dopo i tre cervi sono apparse immagini di lupi, balene, delfini, immancabili cinghiali, pesci e meduse nelle acque limpide dei canali di Venezia e altre forme di vita che la città ormai ha rimosso dall’enumerazione dei beni in proprio possesso. Eppure, per chi c’è stato o per chi ci vive, a Villetta Barrea, i cervi in città, non sono una novità. Questa scoperta della natura mi ha riportato a quel giorno in classe. Ci sono voluti anni per capire chi, tra il bullo e la professoressa, avesse sbagliato a interpretare la traccia. Alla fine ci sono arrivato. Così come servono anni di mattinate allo specchio per scoprirsi vecchi, c’è voluto tempo per capire che qui sulla terra, sebbene in tanti, non siamo soli. E quel compito, nella sua semplicità, mi insegnò qualcosa che nessuno mai ha osato spiegarmi e cioè che per essere consapevoli non è mai troppo tardi.