25 marzo. Seconda settimana di reclusione. Infissi a isolamento termico. Ne andavo fiero, ma ora sono loro che mi separano dal mondo e dalla sua incerta primavera. Il freddo, che cerchiamo in tutti i modi di tenere fuori, ce lo trasmette la televisione. In alta definizione. Possiamo solo stare a guardare. Il sole che, come ogni giorno, tramonta sullo stesso davanzale. Le ombre, per strada, che si muovono con sospetto. I piccioni che riconquistano il territorio sottratto dalle colate di cemento. I corrieri, soli, che imprecano contro i destinatari e abbandonano le consegne agli ingressi come lettere minatorie.
All’inizio sembrava bastasse: perdersi nelle aree interne, disobbedire alle strade battute, passeggiare dove l’unica volta sulla testa è il cielo. Ventiquattro giorni fa, non dico tanto, sembrava bastasse. E invece no. Abbiamo dovuto chiudere tutto. Ci siamo fermati. Isolati. Come bloccati da una tempesta di neve nell’ultimo posto in cui sono stato. Libero. Un paesino con poco più di mille abitanti, almeno per come la vede l’anagrafe. Milleduecentocinquantuno metri sul livello del mare e 32 abitanti per chilometro quadrato. Il distanziamento sociale, fatto bene.
Il paese è un gruzzoletto di case incrostato come tartaro attorno all’unico superstite di un arco dentale che spunta fiero tra le labbra screpolate di queste colline, al sorridere del giorno. Alle 16:30 di domenica 1 marzo, Pizzoferrato è deserta. Nella piazza centrale, le panchine sopportano solo il peso del cielo. Le nuvole promettono pioggia. Il vento ulula tempesta. Le case, strette l’una all’altra, sono una barriera inespugnabile su cui s’infrangono i rintocchi di una campana solitaria. Il bar, il barista, i suoi tre avventori abituali, noi e i nostri quattro caffè sono l’unica cosa che un termoscanner potrebbe individuare in giro, in questo momento.
Sul punto più alto della roccia, il vento strappa le lacrime dagli occhi. Toglie il fiato dalla bocca. Tira indietro i capelli, come criniere ribelli. Sotto di noi, la terra ferma. Qui le misure restrittive imposte dalla geografia non hanno funzionato. Erano quasi 2mila, gli abitanti, quando Bruno Leopoldo Francesco Sammartino partì per l’America. Aveva 15 anni e sarebbe diventato una leggenda del wrestling. Il tempo, sebbene galantuomo, diventa storia o decadimento. E in questo borgo ha dimezzato le anime, come particelle, nonostante tutto sembrasse a misura d’uomo.